2017/2018 - Juana Romani. La petite italienne

 

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne

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Il disegno francese dell'Ottocento: avanguardia e tradizione all'origine della contemporaneità

Pier Luigi Berto

La vicenda di Juana Romani, giunta a Parigi da bambina, e divenuta pittrice attraverso la pratica di atelier, prima come modella, poi sulle orme dei maestri Henner e Roybet, im­ pone delle riflessioni sul disegno, e sul suo ruolo nella formazione dell'artista nella Parigi della seconda metà dell'Ottocento.

Il disegno può considerarsi una particolare modalità con la quale il pensiero ricostruisce il mondo esterno nella coscienza dell'artista.


Charles Baudelaire afferma: "Il disegno è un conflitto tra la natura e l'artista, in questo l'artista può trionfare più agevolmente quando sa intendere meglio le intenzioni della natura. Il problema non è quello di copiare, ma di interpretare in una lingua più semplice e luminosa". Baudelaire conosce bene gli artisti a lui contemporanei, sui quali ha scritto pagine straordinarie come critico ufficiale inviato dai giornali ai Salons parigini. Quando si riferisce al disegno utilizza il concetto dell'interpretazione, toccando un punto nevralgico dell'intendi­ mento moderno che di quella disciplina aveva ormai permeato la cultura del suo tempo. Quella alla quale noi tutti ci siamo abbeverati, facendo nostri i fondamenti della nuova formulazione estetica del Romanticismo.


Ogni artista oggi è consapevole che, da sempre, disegnare la realtà esterna significa conoscerla in profondità, farla propria non solo attraverso l'osservazione diretta, ma anche mediante la creazione di un legame, un rapporto emotivo con essa. Infatti, osservando la realtà esterna al fine di rappresentarla, l'artista la racchiude in una forma significativa, dando concretezza alla sua lettura della realtà fisica, che è poi il modo di essere della realtà esterna rispetto a noi. O almeno rispetto a ciò che noi percepiamo essere, il nostro esserci in termini di percezione, di sentimenti e emozioni. Ho sempre avvertito, infatti, la possibilità di rap­ presentarci attraverso il perimetro fisico del nostro corpo come l'origine, il punto di partenza, di ogni "misurazione" della realtà. Tanto che, come spesso dico ai miei allievi in Accademia, ogni disegno dal vero è un po' un autoritratto, il ribadire il limite esterno della nostra per­ sona, la quale impone alla propria mano di tracciare nella linea di contorno di oggetti e persone disegnati il confine tra il SÉ e il mondo.


D'altra parte, disegnare è anche una dichiarazione d'intenti, che costringe le immagini

di ciò che abbiamo intorno a rivelare ciò che in esse abbiamo identificato come significato, attraverso un procedimento che incanala progressivamente nella forma costruita un segno; quest'ultimo , all'inizio, è solo un misterioso prolungamento del nostro corpo. In questo pro­ cesso la forma finale di un oggetto o una persona diventa riconoscibile agli altri, così come noi l'abbiamo conosciuta nella pratica del disegnare.

E in questo mi sembra di riconoscere ciò che Baudelaire chiama battaglia: la battaglia continua e ineluttabile tra l'urgenza del dire e del significare da una parte e il fare dell'istinto e della pulsione dall'altra.

Immagino che ogni persona che disegna spesso dal vero abbia provato questa sensazione, nel momento in cui ha avvertito che la mano sembrava tracciare in modo autonomo un suo percorso, un groviglio di segni che s'intrecciavano, dipanandosi in modo quasi indi­ pendente rispetto all'osservazione diretta. Come se, tracciandosi, quei segni creassero la condizione necessaria affinché l'essere disegnato delle cose divenisse fenomeno, come la nostra vita nel mondo.


Il disegno dal vero, infatti, non può essere considerato la riproduzione della percezione visiva di ciò che sta davanti a noi, né, tantomeno, il progetto provvisorio per un completa­ mento di quella percezione attraverso l'aggiunta del colore. Ciò non è ravvisabile neanche nell'opera dei maestri del passato, quando il disegno era praticato quale studio per la realizzazione pittorica.


Nessuna opera compiuta contempla tutto quello che possiamo vedere negli studi che l'hanno preparata: un dipinto non è la traduzione di uno o più disegni preparatori, neanche all'interno della più accademica delle procedure, proprio come nessuna rappresentazione teatrale è mai la trascrizione fedele del testo drammaturgico che mette in scena.


Per molti secoli, certo, gli artisti hanno ideato le loro opere partendo da disegni, realizzati con modalità diverse, a seconda che le pitture fossero dipinte sulle tavole di legno, sulle tele o sul muro. A volte il disegno era dentro l'opera dipinta, nascosto nella forma finale, sotto le immagini della stesura pittorica in superficie; altre volte, in epoche più vicine a noi, quando alcune tecniche artistiche come l'affresco andavano scomparendo e altre come la pittura su tela si semplificavano nella procedura, i disegni preparatori emergevano fuori dall'opera pittorica. E certo, in un caso e nell'altro, il disegno rappresentava sempre, nella sua diversità rispetto al prodotto finale, un'intuizione primigenia e originale dell'opera. Nello studio grafico che rimane esterno al dipinto si rivela in modo chiarissimo il particolare corto circuito che, rendendo indipendente il disegno dalla pittura, lo rende diverso da essa e aldilà degli aspetti tecnici. All'interno di questa diversità la forma riprodotta con diversi modi di fìgurare si lacera, infatti, in realtà differenti, che non riguardano solo il livello percettivo, ma attengono all'esperienza che ha generato la forma data dall'artista alla sua opera, in funzione di una ricerca del suo significato, più ancora che della riproduzione della sua esteriorità.


Sia il disegno sia il dipinto sono, infatti, immagini: in quanto tali entità autonome, che parlano indipendentemente alla sensibilità dello spettatore, offrendogli la percezione di dimensioni conoscitive diverse.


A questo proposito il critico George Didi-Huberman fornisce una straordinaria interpretazione del significato dell'immagine: "Noi siamo davanti alle immagini come davanti a strane cose che si aprono e si chiudono alternativamente ai nostri sensi - che s'intenda con questo termine un fatto di sensazione o di significato, il risultato di un atto sensibile o quello di una facoltà intellegibile....Le immagini ci abbracciano: si aprono a noi e si chiudono su di noi nella misura in cui suscitano in noi qualcosa che potremmo chiamare un'esperienza interiore".


Simili consapevolezze costituiscono il substrato della nostra odierna sensibilità artistica, anche se non hanno avuto origine per intero nella nostra contemporaneità: esse risalgono, nelle loro prime formulazioni a una fase di poco antecedente all'Ottocento. Si sviluppano, infatti, dal dibattito critico che determinò, verso la metà del XVIII secolo, la nascita dell'estetica, teorizzata per la prima volta, intorno al 1750, da Alexander Gottlieb Baumgarten nel suo testo Aesthetica.

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienneAnnibale Carracci, Studio di testa rivolta verso l'alto, s.d, Firenze, Uffizi

Una delle prime conseguenze causate dal cambiamento artistico e culturale di quest'epoca fu non tanto un repentino mutamento nello stile artistico dominante, quanto un nuovo modo di intendere l'Arte e di insegnarla, che generò nuove scuole di pittura. Mi riferisco in particolare a quegli ateliers che io considero l'origine delle moderne accademie, nelle quali il disegno dal vero era considerato uno strumento intellettualmente imprescindibile per una specifica modalità di conoscenza del mondo.

Il determinarsi della nuova sensibilità che diede origine a tali cambiamenti deriva certo da alcune teorizzazioni elaborate dal pensiero illuminista, che considerò per la prima volta la produzione artistica come strumento di un autonomo studio del reale, svincolata rispetto alle finalità di altre dottrine del sapere. Di conseguenza tutte le varie tecniche artistiche furono considerate fasi diverse di un chiarimento intellettuale che si genera nel dato sensibile, senza esaurirsi mai in esso.

Un passo fondamentale verso la definizione della specificità dei molteplici linguaggi artistici e del loro significato fu fatto all'interno della grande fucina culturale dell'Encyclopédie. D'Alembert e Diderot non solo introdussero un'accurata analisi delle più importanti tecniche artistiche, ma anche, nel Discorso Preliminare, giustificarono tutta l'Arte come un procedimento capace di collegare, attraverso la mimesi delle forme naturali, l'immaginazione con la cultura e l'intelletto.


Ovviamente un tale cambiamento nei confronti dell'identificazione del valore dell'Arte ha modificato, nelle epoche posteriori al Settecento, la capacità di lettura delle opere del passato, rendendola consapevole di problematiche assolutamente nuove. Questo perché ogni realizzazione artistica da allora è stata considerata un'elaborazione culturale messa a punto con gli strumenti del disegno, della pittura o della scultura, che stavano alla costruzione finale dell'opera come le diverse forme letterarie della prosa, della poesia o dell'epica stavano all'espressione del pensiero. Questi cambiamenti modificarono inoltre l'atteggiamento che gli stessi artisti assunsero rispetto al significato, al valore, e alla necessità del loro far arte.

Se dall'Ottocento la consapevolezza estetica dell'arte spicca il volo che la farà giungere al cuore stesso della nostra coscienza artistica di contemporanei, non va dimenticato che in essa hanno confluito diverse anticipazioni portate avanti nella pratica artistica che si era via via rinnovata dal XVII al XVIII secolo. Tale pratica si era strutturata appunto su un partico­ lare filone di razionalismo e vedeva nell'espressione dell'arte il chiarirsi dell'emozione suscitata dal reale. Infatti, sia nell'Accademia dei Carracci (fig. 1) sia nell'impostazione di alcuni ateliers dell'Ottocento, come quelli di David o Canova, l'apprendimento del disegno era presentato come un percorso che accomunava gli allievi con il maestro in una pratica conoscitiva, fatta di condivisione esistenziale della quotidianità. In questo modo si cercava d'individuare il valore e l'ideale della vita, prima ancora che la sua bellezza.

Motivo questo per cui nel XIX secolo il disegno indicò spesso alla pittura strade di­ verse che non passavano per la semplice riproduzione del reale, ma per una sua lettura critica. Questa poteva essere di natura esaltante o desolante, grottesca o drammatica, ma mai semplicemente subordinata all'apparire degli oggetti o dei fatti.


È in questo secolo, infatti, e principalmente nei disegni di alcuni caposcuola dei più importanti movimenti artistici, che l'op­ posizione tra arte d'avanguardia e tradizione accademica sembra stranamente scomparire, evidenziando come certi tratti innovativi del disegno di questi artisti siano scaturite da impostazioni stilistiche evocanti la tradizione classica, dalla quale la loro produzione pittorica sembrava volersi allontanare. Come se nella riflessione intellettuale del disegno la grande maniera pittorica del passato fosse sottoposta a una lettura critica, capace di sintetizzarne le parti più profonde nell'innovazione della modernità che il pensiero estetico aveva reso indispensabile.
In quella fase storica, una simile opera­ zione, del resto, non poteva essere portata a termine con facilità dalla pittura, a causa della sua subordinazione al valore percettivo rappresentato dal colore; al contrario, il disegno grazie alla linea con la quale esso demarca le cose raffigurate, da sempre aveva compiuto sulle forme del vero un processo di astrazione.

Comunque, credo che le nozioni di tradizione e avanguardia debbano essere ricondotte nell'Ottocento quasi per intero all'identificazione della prima con i modi fondamentali comuni a tutta la pittura italiana dal Rinascimento al Barocco, sentita così fortemente anche da Juana Romani, mentre nel caso dell'avanguardia i riferimenti vanno ritrovati nelle sperimentazioni artistiche che dal Neoclassicismo al Simbolismo furono presentate nei Salons parigini, dove il rifiuto o l'ambigua rivendicazione dello stesso concetto di tradizione segnò la trasformazione del gusto di quell'epoca.

Per questo, in qualche modo la Storia dell'Arte antica Italiana e quella dell'Arte contemporanea in Francia s'intrecciano nell'Ottocento, mostrando una singolare sovrapposizione proprio nel disegno.

Emblematico è il caso di David che, come quasi tutti gli artisti dell'epoca, soggiorna in
Italia. In lui l'ispirazione alla grande maniera pittorica del seicento italiano, a partire da Caravaggio, non solo non si trasforma in deteriore accademismo, ma, proprio attraverso la pratica del disegno dal vero, dà vita alla trasformazione rivoluzionaria del suo stile pittorico.

Ciò risalta in modo evidente nello studio della testa di Marat morto, realizzato per il noto dipinto (fig. 10).

In questo disegno, eseguito dal vero, si coglie in modo più emotivamente sentito la presenza della morte, che qui non si sublima nell'immagine eroica del Marat dipinto, ma, pur rimanendo composta entro un controllo stilistico straordinario, testimonia la commozione di David in modo immediato.

Infatti, l'evidente influsso caravaggesco riscontrabile nel realismo storico e ideologico del quadro sfuma nella presa diretta dal reale di questo studio, dove gli occhi del pittore hanno avuto la possibilità di fissarsi senza filtri sul volto esanime dell'amico. Quasi che, nella prima fase di concepimento dell'opera, David abbia lasciato trasparire la sua commo­ zione davanti alla tragedia della morte nella fisionomia di quell'uomo, che poteva per l'ultima volta osservare proprio nell'atto di ritrarlo.


Questo disegno può essere considerato in prima battuta l'elaborazione del lutto di David per la morte dell'ami co, dunque rappresenta un processo indispensabile per emanciparlo dal dolore. Uno spazio a fatica ritrovato dal disegno, che con un tratto scuro e profondo ha figurativamente ricomposto quel dolore lacerante nella forma di un ritratto senza celebra­ zione, avvolto nell'ombra della pietas. Il chiaroscuro che si stende sul viso del defunto come un sudario, mitiga, senza cancellarla, l'immagine dell'impietoso scempio che la morte ha lasciato nel vuoto dei suoi occhi socchiusi e nella rigidità dei suoi lineamenti.


Questa dinamica consequenziale tra approccio diretto del disegno alla realtà in tutte le sue implicazioni fisiche ed emotive, trasformazione dell'emozione entro i limiti dell'oggettività della forma, e trasfigurazione artistica del dipinto finale, provano che un disegno preparatorio, eseguito da un grande artista, già nell'ottocento, cominciava ad essere un lavoro autonomo compiuto sul vero e dunque trovare in sé stesso un proprio valore.

Un altro dato può ulteriormente chiarire il rapporto tra disegno e pittura di questo pe­ riodo: quasi tutti gli artisti francesi del XIX secolo hanno eseguito con dei disegni riproduzioni di dipinti antichi.

Ad esempio Ingres copiò in modo esemplare la fornarina di Raffaello (fig. 2), con l'intento di utilizzarla in un dipinto intitolato "Raffaello e la fornarina". In realtà appare chiaro che l'immagine della donna ritratta dal maestro urbinate avesse affascinato a livello personale Ingres, il quale non solo la definì la sua donna ideale, ma la rievocò in modo più o meno evidente nei tratti di altre donne presenti nei suoi dipinti.
 

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienneJean Dominique Ingres, Studio per "Raffaello e la Fornarina", 1815 ca., New York, Metropolitan Museum of Art (fig.2)


Il romantico Delacroix, invece, in molti disegni, trovò spesso modo di sperimentare la stessa espressività concitata dei suoi dipinti d'avanguardia studiando con attenzione la ridondanza di certa pittura barocca, che reinterpretò in un segno discontinuo e arabescato, capace di tracciare le figure con forme aperte e dinamiche.

Alcuni disegni dal vero del realista Courbet semplificano invece le forme rappresentate rispetto ai suoi dipinti, specialmente in alcuni paesaggi molto sintetici e distanti dalla precisione dettagliata delle figure realizzate in pittura. In uno studio per il "Funerale ad Ornans", (fig. 3) nota come tratteggiare con linee d'ombra i personaggi appuntati in una presa dal vero, evidenzia, anche in questo caso, che il suo disegno, a differenza del dipinto finale, è meno implicato nella rispondenza percettiva con il vero. Tema questo, posto proprio in quest'epoca dalla nascente fotografia, che già anticipava alcune problematiche degli impressionisti.


Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne
Gustave Courbet, Studio per "Sepoltura ad Ornans", Besancon Musée des Beaux-Arts (fig.3)

È palese nell'osservazione di alcuni disegni di questi artisti, che per primi abbandonarono radicalmente la tecnica pittorica tradizionale, come nei loro dipinti in sostanza venisse violata ogni convenzione rappresentativa classica quale la prospettiva, il disegno preparatorio o il chiaroscuro e le velature. Nei loro disegni dal vero il segno non si poneva quasi mai il problema del distacco da un procedere tradizionale né per tecnica né per iconografia.

In particolare Degas, (fig. 4) non solo copiò alcune figure della cappella Sistina di Michelangelo, ma studiò anche l'iconografia del passato, progettando disegni per soggetti religiosi, come ad esempio due figure di San Sebastiano.

 

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienneEdgar Degas, Copia da Michelangelo. Figure da dannati dalla Cappella Sistina, s.d., Brema, Kunsthalle. (fig.4)


Non fu per questo meno attento ad approfondire nuove tecniche di riproduzione del reale. Un esempio di quanto appena detto si può riscontrare nell'inquadratura fotografica dell'incisione dove è rappresentata di spalle Mary Cassatt (fig. 5). Degas ottiene un impatto visivo immediato della donna, catturata mentre osserva i dipinti del Louvre; l'autore utilizza segni incisi su una matrice, con la freschezza che solo l'istantanea di un obiettivo fotografico può rendere. In questo modo, dimostra come, ormai, nella vita moderna, gli artisti potevano far diventare contemporaneo qualsiasi soggetto, perché l'arte, in generale, e il disegno in particolare, avevano infranto la barriera tra realtà e immaginazione, tra passato e presente.

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Edgar Degas, Al Louvre, la pittura, Mary Cassatt,1879-1880, New Haven, Yale University Art Gallery. (fig.5)

Dopo la breve parabola impressionista, infatti, nell'arte simbolista francese, che chiude l'ottocento, la coesistenza di verismo e immaginazione fantastica si presenta con tutta la po­tenza della sua forza creatrice. Specialmente nella produzione di disegni, gli artisti sembrano giungere a sintesi innovative distanti da forme stilistiche antiche e al tempo stesso attente a un linguaggio espressivo della classicità.

È questo il caso di alcuni eterei disegni di Redon (fig. 6) realizzati quasi con gli occhi chiusi, per raggiungere una potenza introspettiva assoluta e visionaria che già anticipa il Surrealismo; così come meritano di essere ricordati alcuni disegni di Gustave Moreau, un artista la cui pittura appariva a molti come il ritorno a una figurazione tradizionale, quasi un passo indietro rispetto all'impressionismo. Infatti, se si osserva un suo disegno dal titolo "La fanciulla Tracia che porta la testa di Orfeo", (1885-90) (fig. 7) colpisce proprio la straordinaria potenza della semplificazione formale delle figure, capace di trasformare i segni di contorno in motivi decorativi assoluti prima che elementi descrittivi in senso plastico.

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Odilon Redon, Yeux Clos, 1890 ca., Parigi, BNF. (fig.6)

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne
Gustave Moreau, Studio per Orfeo o la Fanciulla Tracia che porta la testa di Orfeo, 1885/1890, Parigi, Musée Gustave Moreau (fig.7)


Tanta capacità di astrarre, in realtà, non può essere letta come una contraddizione rispetto ai modi aggrovigliati e materici della sua pittura ridondante e fantastica. Piuttosto deve essere considerata come una rivelazione della capacità del suo segno di smaterializzare ogni residuo percettivo della figura dal vero, attraverso una sottrazione di dettagli: è un'operazione opposta e complementare ai modi della sua pittura, capace di far materializzare Eroi e Dei da mondi lontani dalla realtà. 

Proprio la capacità di un disegno come questo rende astratto il dato figurativo e ci fa comprendere come Matisse, allievo nell'atelier parigino di Moreau, sia partito da quel preciso punto nevralgico dell'arte del maestro, nel quale si sovrappone ciò che è visibile a ciò che non lo è, aprendo la strada a un filone di ricerca delle avanguardie storiche del 900. Anche la figurazione profondamente religiosa dell'altro grande allievo di Moreau, Rouault, che nel disegno diventa tanto barbaramente d'avanguardia, può essere considerata una sorta di contraltare spirituale al ricercato paganesimo visionario del suo maestro. Maestro che non si opponeva all'atteggiamento mistico del discepolo immerso nella propria interiorità, forse perché vi riconosceva la genuinità di una mente ispirata e carica, origine di ogni espressione artistica. 


In conclusione, penso che in realtà non esista uno stile artistico più alto e uno più gros­ solano, uno più accademico e uno più rivoluzionario, e sono convinto che nella Francia dell'Ottocento la nuova pittura contemporanea non abbia mai voltato le spalle alla tradizione, ma seguendo più o meno direttamente la riflessione intellettuale del disegno, abbia trovato proprio nell'insegnamento dei grandi maestri del passato l'ispirazione per una propria nuova originalità. In ogni epoca, per essere davvero artisti interpreti del proprio tempo, se ne deve costruire un'immagine che prenda senso da ciò che si è capito dalle immagini che appartengono al tempo passato. Come scrive Balthus , pittore unico per coesistenza di antico e moderno: "Ognuno di noi è responsabile della storia passata, bisogna conservarne a qualunque prezzo la testimonianza, ritrovare gli insegnamenti degli antichi, la loro infinita pazienza, la loro eccezionale maestria". 

È un fattore indispensabile per creare una modernità che custodisca la nostra identità nell'Arte come nella vita, andando avanti sempre con infinita pazienza, anche quando non si è convinti di avere "eccezionale maestria".

La relazione tra un'eccezionale maestria tecnica e un talento innato può generare una lettura non scontata del nuovo rapporto che lega un tradizionale modo di procedere della pittura con un'urgenza espressiva di un'artista come Juana Romani. Nello scorcio che conduce l'ultima parte del XIX se­ colo all'inizio del XX, sembra intrecciare in modo singolare tutte le componenti opposte e complementari che ho precedentemente individuato come elementi essenziali, non solo del disegno in generale e di quello dell'8o o in particolare, ma anche del fondamento estetico specifico di un riprendere il vero. Mi riferisco in particolare a quella figurazione dalla quale inizia un importante filone dell'età artistica contemporanea che non si contrappone all'arte passata, ma che piuttosto cerca di stabilire con questa una sintonia, per accedere ad alcune sue profonde e misteriose implicazioni.

Per questo motivo ho accettato con piacere l'invito del curatore della mostra dedicata a Juana Romani, a scrivere un saggio sul disegno dei pittori francesi dell'ottocento, quale supporto integrativo alla comprensione critica della pittura di questa artista.

Ho visto in questa mostra un'occasione per provare a leggere l'intreccio di modernità e tradizione in una pittrice che pareva aver scelto di voltare le spalle, come molti altri artisti dell'epoca, a tutta la rivoluzione introdotta in Arte dall'Impressionismo.

Juana infatti ben si inserisce nel ritorno ad una figurazione solo apparentemente tradizionale, portato avanti dal Simbolismo. Tuttavia, è bene sottolineare che la sua pittura non è mai coinvolta nelle implicazioni più visionarie di quel movimento, in quanto mette a punto una 
forma di realismo più vicino se mai al gusto per l'allegoria di quell'Arte che rifiutò il naturalismo percettivo dell'en plein afr senza rinunciare però alla centralità della forma figurativa. 

Ma se nella pittura della Romani il tema allegorico non tra­ sfigura mai la forma reale dei soggetti rappresentati, non può passare inosservato un dato: tutte le figure femminili, che rappresentano il tema fondante della sua opera, si rifanno al tema dell'autoritratto. Come se questa artista cercasse di elaborare una sua identità attraverso le immagini pittoriche da lei create , per liberare le sfaccettature della sua personalità dalle catene di coesistenza loro imposte dall'identità percettiva dell'Io. Come se volesse trasporre queste sfaccettature in istanze individuali capaci di ribadire l'essenza molteplice della sua personalità complessa in diverse costruzioni di autoaffermazione fantastica. 

Infatti mi sembra che le opere di questa artista, in contrasto con l'apparente accademismo della loro mirabile esecuzione tecnica, ispirino un sentimento di inquietudine molto più prossimo all'irrequietezza che ha attraversato il secolo breve appena concluso. Una irrequietezza oggi molto più difficile da ritracciare in certa facile ripetizione di stilemi impressionistici di pittura con­ temporanea a quella della Romani, nella quale l'abbandono del disegno in realtà conduce ad una superficialità del fare pittorico che fa sconfinare l'immagine in una banale facilità. 

E non credo neppure che la sua figurazione attenta e puntuale possa semplicemente spiegarsi con l'opportunistica adesione di Juana ad una buona maniera della pittura, con la quale molti au­ tori mediocri di quel tempo soddisfecero il gusto borghese e ben­ pensante dell'epoca. 

È, infatti, proprio la stessa pittrice a metterci in guardia rispetto ad una sterile mitizzazione di una sapiente tecnica artistica, quando dichiara che troppa tecnica può rovinare un artista. Insistendo, inoltre, a denunciare l'azione paralizzante del conflitto tra mestiere ed ispirazione quando sostiene che: "Tutta la stancante e straziante schiavitù dello studio, che spesso serve, rischia di schiacciare la scintilla tremolante del fuoco sacro ed esaltare al suo posto l'accurata mediocrità o l'abilità della mano."

Del resto la stessa biografia di questa sfortunata artista ci narra non solo delle sue umili origini a Velletri, ma anche di quel "fuoco sacro" dell'amore per l'Arte che l'ha accompagnata in tutto il suo soggiorno parigino, esaltante e al tempo stesso tormentato, quando imparò la tecnica della pittura mentre altri artisti dipingevano lei come modella, fino al momento in cui raggiunse la fama e il riconoscimento del suo talento. 

Cominciando a disegnare con i carboncini che gli studenti scartavano, quando posava nelle scuole d'arte, apprese infatti il vero mestiere della sua vita in un modo nel quale disegnare era già un dipingere. Infatti, nei suoi dipinti dell'età matura usò il pennello per la prima definizione dell'immagine con lo stesso innato istinto con il quale, probabilmente, probabilmente, aveva disegnato con i carboncini sui muri. 

Infatti la Romani, proprio in virtù della sua necessità di saldare nell'immagine l'emozione ispiratrice senza scinderla in fasi esecutive distinte, non concepì mai nelle sue opere una figura dipinta che fosse prima disegnata.

Per questo Juana ha sempre dipinto sulla tela disegnando direttamente con il pennello. In questo segue l'esempio di, prima di lei, molti grandi artisti della tradizione veneta, da Giorgione a Tintoretto, che ricorrendo a questa modalità e non per questo producendo figure meno ben disegnate di altri autori della scuola tosco-romana, come Michelangelo o Raffaello, che sono appunto artisti in cui la forza del disegno è preponderante nella loro pittura. 

Una forma dipinta può non essere preventivamente disegnata: essa stessa può possedere in sé i principi del disegno. Sono appunto i principi che diventano immediatamente pittura nei dipinti della Romani in virtù della competenza del disegno assimilata impulsivamente fin dalle sue p1ime pratiche artistiche. Una competenza sviluppata tanto naturalmente da farsi consuetudine della mano e sapienza dell'occhio, che le consentono di controllare appieno la forma figurativa.

"Il pittore deve disegnare con il pennello e non con la matita. Prima lo fà e meglio è." afferma l'artista: ma il suo pennello conosce evidentemente la struttura fondamentale del disegno, che sa dare le giuste proporzioni alle figure. È facile supporre anche che abbia modificato il suo sguardo attraverso le immagini di quell'arte fotografica che alla sua epoca già cominciava ad imporsi come mezzo per catturare il vero. È un elemento, questo, che la accomuna a alcuni pionieri della pittura dell'Ottocento come Courbet o Degas.

Nei dipinti della Romani la matita scompare per lasciare che sia il solo pennello a definire la saldezza plastica dell'immagine eppure, in un suo particolare disegno che ho avuto modo di vedere, al contrario, il segno non chiude la figura in contorni precisi, ma la sfuma in modo quasi leonardesco, ricercando un altro tipo di realismo.

Mi riferisco al disegno (fig. 8) che raffigura una testa di donna, eseguito a sanguigna su carta, che pur essendo identificato come un autoritratto, presenta analogie evidenti con il dipinto "Fior d'Alpe" esposto al Salon del 1896.

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne
Juan Romani, Autoritratto o studio per Fior d'Alpe, 1896/1905, collezione Colosimo Natiello (fig.9)


Guardando oltre la precisa corrispondenza fisionomica dell'opera con il volto della pittrice, a me sembra che anche in questo caso, come in quello del dipinto, sia raffigurato un sentimento di femminilità nel quale Juana , probabilmente voleva creare una sua autorappresentazione attraverso lo specchio riflettente delle immagini create.

Il volto di donna del disegno, infatti, è rappresentato in una posa in scorcio che accentua un senso di abbandono alla propria sensualità, raffigurata in uno stato di soddisfatto oblio nel quale si annebbia ogni percezione esterna. Gli occhi socchiusi, sulla bocca un lieve sorriso, la testa inclinata all'indietro, il suggerimento di capelli scomposti: tutto in questo viso richiama piacere fisico e appagamento interiore, fusi insieme in una immagine che comunica una sorta di semi incoscienza, che ben rende la mancanza di interesse della donna per la percezione esterna.

La sanguigna tratteggia tutte queste emozioni nella resa chiaroscurata dei lineamenti, che di­ venta alternativamente ombra e luce, attraverso sfumature che non creano contrasti tra l'una e l'altra. Tanto che da questo viso femminile appare al nostro sguardo quasi come il condensarsi di una sostanza gassosa che lambisce anche il suo corpo, suggerito soltanto dal disegno sottile di una spalla. All'interno di questa sostanza leggera dell'ombreggiare incorporeo della sanguigna, il segno esilissimo, ma perfetto della definizione anatomica dello zigomo e della mascella, segna il confine tra volto e spazio. È un tratto definito con la stessa delicatezza con la quale la pittrice delimita il confine tra mondo fisico ed emozione.

Un simile disegnare mi è parso dunque lontano dal modo di dipingere della Romani, nel quale le figure presentano una solidità plastica molto definita e diversa dall'evanescenza dell'ap­parire di questa immagine. Anche nel disegno di questa artista, sembra emergere il rapporto più diretto con la grande tradizione classica dell'arte di quanto non appaia nella sua pittura.

La modernità delle sue figure dipinte, fanno rivivere nell'attualità di un inalienabile realismo evocazioni allegoriche e simboliche. L'artista sembra essersi formata infatti molto più al clima turbolento di un simbolismo a volte prossimo al linguaggio delle Secessioni e che, non disdegnando pose fotografiche, rientra nel filone modernista come la grande tradizione europea della pittura fin de siècle.

Nel disegno in questione, invece, sembra riaffiorare una tecnica più direttamente ispirata alla figurazione dolce e lieve che, dall'esordio del Rinascimento veneto si prolunga nella pittura emiliana di Correggio e nel manierismo degli emiliani, si riversa poi, a sua volta, nel naturalismo classicista della pittura romana del primo seicento, importato nella capitale dagli insegnamenti di Annibale Carracci.

Molta della pittura di questi autori l'autrice l'ha certo conosciuta e studiata al Louvre, dove accanto alle importanti tele di Leonardo, Tiziano e degli altri maestri italiani di quel contesto, ha certamente avuto l'opportunità di osservare le straordinarie raccolte dei loro disegni.

Viene anzi in mente, a questo proposito, un disegno di Parmigianino (fig. 9), che ho avuto modo di vedere proprio al Louvre, e che mi ha ricordato il disegno della Romani per l'analogia dello sfumato e della indeterminatezza della figura.

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne
Parmigianino, Autoritratto, s.d, Parigi, Musée du Louvre (fig.9)


In quell'opera, come in questa, in effetti, disegnare è già dipingere, nella misura in cui la matita non traccia segni di demarca­ zione ma crea campiture tonali che hanno lo stesso valore luministico del colore.

Per cui, quando la Romani raccomanda agli artisti di lasciare la matita vuol probabilmente intendere di abbandonare un certo uso della matita, inteso a tracciare un disegno che delimita forme poi riempite con il colore dalla pittura.

Perché questa pittrice sapeva certo che disegnare e dipingere sono le due chiavi che devono aprire l'accesso alla trasposizione del vero nell'immaginario, mediante la sin ­ tesi operata dell'osservazione che deriva dalla percezione del mondo propria dell'artista; al contrario, quindi di un approccio che definisce il disegno come un supporto gerarchico della descrizione percettiva. L'artista era sicuramente consapevole di quanto quella tremolante scintilla del fizoco sacro costituisse per lei per lei l'intuizione estetica, che avrebbe illuminato per sempre la sua vita, anche a costo di rinunciare a viverla come tutte le altre donne del suo tempo.

E le avrà, speriamo, fatto luce anche negli anni della malattia e dell'oblio.

Pier Luigi Berto - 2018 - Juana Romani - La petite italienne
Jacques Louis David, Marat, s.d., Musèe National De Versailles et de Trianons (fig.10)

NOTE

1- C. Baudelaire, Scritti sull'arte, Torino, Einaudi, 1981.

2- G. Didi-Huberman, L'immagine aperta: motivi dell'incarnazione nelle arti visive-, Milano , Mondadori, 2008
3- 
J Relativamente all'Estetica di Baumgarten si veda: F. Bologna "Intelligenza delle maniere. Valore dei
processi esecutivi e rapporto tra Arte e Società nella rivendicazione illuministica dell'esperienza", in G. Previtali, Storia dell'arte italiana. Parte prima. Materiali e problemi. Questioni e metodi Volume I, Torino, Einaudi, 1981.

4- A. Vircondelet, Memories de Baltl nzs , Parigi , Editions du Rocher, 20 0 1, tr. ita: Balthus, Memorie, Mondadori, Milano, 20 15 
5- The Art..of.the Age, in "Pearson's Magazine ", 11° 83, novembre 1902, p. 455.
6- Erskine Clement, C., Women in the fìne arts fi-om the seventh centwy B.C. To the twentieth centuzy a.d., Houghton , Mifflin and Com pany, Boston e New York, 1904, p. 391.